Mette al riparo il bambino dalle malattie infettive, riduce il rischio di sviluppare allergie e obesità, migliora lo sviluppo motorio e quello intellettivo, non costa nulla ed è sempre disponibile. Eppure, nonostante i vantaggi evidenti, l’allattamento al seno in Italia è ancora praticato troppo poco. Perché?
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Il dato emerge da un’indagine che ha coinvolto l’Istat, l’Istituto Superiore di Sanità e la Asl 3 di Torino, effettuata su circa cinquemila neomamme su tutto il territorio nazionale. Certo, ammettono i ricercatori, «in Italia la quota di donne che allatta è aumenta di circa il 15 per cento in 20 anni, e oggi con l’85,5 per cento dei bambini almeno un tentativo viene fatto». Le donne che però proseguono fino a sei mesi, così come raccomanda l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sono appena il 42,7 per cento, con forti differenze fra una regione all’altra. In particolare, si legge nello studio, «il Sud e le Isole risultano penalizzati, con il 39,4 per cento, mentre è nel Nord-Ovest che si registra la percentuale più elevata, pari al 50,3 per cento».
Ciò che accade nelle ore che seguono il parto gioca un ruolo fondamentale: se il neonato è attaccato al seno entro le tre ore dalla nascita salgono le probabilità che la buona abitudine prosegua, e lo stesso accade quando, in ospedale, la madre e il piccolo dormono nella stessa stanza. Viceversa, hanno meno probabilità di essere allattati a lungo i bambini nati con parto cesareo e quelli ai quali, nelle prime ore di vita, è somministrato latte artificiale, anche se a volte è necessario farlo per motivi di salute.