Il caso del latte con aflatossina utilizzato da cinque caseifici bresciani per preparare forme di formaggio che dovrebbero ricevere il marchio Grana Padano a giugno, sta già facendo il giro del mondo. La conferma arriva dal direttore del consorzio, Stefano Berni, che dagli uffici di San Martino della Battaglia (Desenzano del Garda) ha il suo bel da fare nel rassicurare i fornitori internazionali del formaggio Dop più venduto all’estero, vanto del buon cibo made in Italy.
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Ripete loro che “ogni forma di Grana oggi in commercio è totalmente sicura” e che il formaggio prodotto con il latte incriminato è tutto stoccato nei magazzini, in attesa di subire rigorosi controlli sanitari. Ma la paura che nelle prossime settimane si subisca un contraccolpo economico causato dai timori dei consumatori, è palpabile. Le forme sequestrate sono di più delle 4mila di cui si è parlato fino ad oggi. Quel numero riguarda solo i prodotti lavorati in un caseificio della Bassa. Ci sono altre 3mila forme – in altri tre caseifici della bassa bresciana e in uno sul Garda – che hanno ricevuto i sigilli sanitari dell’Agenzia di Tutela della Salute di Brescia.
Numeri che potrebbero crescere ancora, come confermano dalla stessa ATS: i veterinari stanno collaborando con i carabinieri dei Nas per risalire la filiera del latte munto in una trentina di stalle (prevalentemente nel Bresciano ma anche nel Cremonese e nel Mantovano). I caseifici finora ‘incriminati’ sono: Cabre di Verolanuova, Solat di Leno, il caseificio San Vitale di Seniga, il Giardino di Orzivecchi e la Gardalatte di Lonato. Gli ultimi due però non rientrano ufficialmente nel ‘girone’ dell’inchiesta.
Latte prodotto da vacche che da settembre in poi hanno mangiato mais locale, contaminato da cangerogena aflatossina B1, fungo sprigionatosi per colpa dell’estate arida e caldissima. Diversi allevatori quel latte l’hanno buttato in concimaia. Qualcuno – in un momento di crisi nera – ha fatto il ‘furbo’, consegnandolo ugualmente alla cooperativa di riferimento. Ma il sospetto degli inquirenti è che qualche caseificio abbia deciso di comprarlo sottocosto, diluendolo con latte buono. Berni però ricorda subito due numeri: “Le forme sequestrate sono circa 7mila, numeri che vanno rapportati ai 4,6 milioni l’anno di forme commercializzate”. E aggiunge un altro dettaglio non da poco: “Per fare un chilo di grana servono 15 litri di latte. E il limite massimo di aflatossina stabilito dal Ministero della Salute è di 275 nanogrammi al chilo per i formaggi duri, non di 50 come per il latte. Per questo siamo tranquilli: credo siano pochissime, se non pari a zero, le forme con contaminazioni fuorilegge”.
E il presidente del Consorzio Cesare Baldrighi (agronomo) ricorda che “nella produzione del grana la metà delle aflatossine, che sono solubili, finisce nel siero e solo metà nell’impasto”. Per Berni questi non devono essere alibi per quei caseifici che hanno ritirato il latte sapendo che era contaminato: “Con loro la magistratura sia durissima. Ma so di altri operatori che non sapevano di ritirare latte fuori norma, gli allevatori non glielo avevano comunicato. E va comunque ricordato che le cisterne raccolgono latte da più stalle, diluendo quindi – anche se è vietato per legge – la presenza di micotossine”. Il timore di Berni però, è che il fenomeno del latte all’aflatossina non sia limitato a cinque dei 28 caseifici bresciani produttori di Grana. Ma possa riguardare anche altre province lombarde e regioni come Veneto, Emilia, Piemonte, dove si produce il pregiato formaggio Dop. “È impensabile che le stalle ‘disinvolte’ siano solo nella nostra provincia. È che qui i Nas hanno fatto i controlli”. Insomma, c’è da aspettarsi nuovi importanti capitoli della vicenda.