Con l’inizio della scuola puntualmente molte mamme cominciano a soffrire di una stessa malattia, “panico da insuccesso del proprio figlio”. E i sintomi si ripetono ogni anno: ansia da prestazione (come se fossero loro a dover affrontare un esame o un’interrogazione), aspettative sul proprio figlio (temono che non siano i primi della classe), ossessione nel controllare l’attività scolastica del bambino. Ma come dovrebbe comportarsi una mamma nei confronti di un figlio che va a scuola? Come accompagnarlo e sostenerlo nel suo percorso scolastico senza opprimerlo?
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Da un po’ di anni, con genitori super presenti si vedono sempre più spesso genitori in preda all’ansia frenetica di far primeggiare i figli ad ogni costo, alla «ricerca del successo con l’idea che chi sbaglia sia un fallito. Questo dilagare degli adulti sui figli fa solo male: si trasmettono aspettative e stereotipi per indirizzarli, dando un’idea di competitività anziché di realizzazione di sé.
Se vanno male a scuola, o semplicemente non così bene come noi pretendiamo, subito innalziamo fra loro e noi la bandiera del malcontento costante; prendiamo con loro il tono di voce imbronciato e piagnucoloso di chi lamenta un’offesa. Allora i nostri figli, tediati, s’allontanano da noi. Oppure li assecondiamo nelle loro proteste contro i maestri che non li hanno capiti, ci atteggiamo, insieme con loro, a vittime d’una ingiustizia. E ogni giorno gli correggiamo i compiti, anzi ci sediamo accanto a loro quando fanno i compiti, studiamo con loro le lezioni. In verità la scuola dovrebbe essere fin dal principio, per un ragazzo, la prima battaglia da affrontare da solo, senza di noi; fin dal principio dovrebbe esser chiaro che quello è un suo campo di battaglia, dove noi non possiamo dargli che un soccorso del tutto occasionale e illusorio. E se là subisce ingiustizie o viene incompreso, è necessario lasciargli intendere che non c’è nulla di strano, perché nella vita dobbiamo aspettarci d’esser continuamente incompresi e misconosciuti, e di essere vittime d’ingiustizia: e la sola cosa che importa è non commettere ingiustizia noi stessi.
Cosa fare? Ritirarci progressivamente dalle loro vite, considerandoli altro da noi: certo, il nostro supporto non verrà mai meno, ma non possiamo sostituirci a loro perché, inconsciamente, la loro felicità, il loro successo è anche il nostro. Dobbiamo renderli liberi e autonomi di scegliere la strada che li porta alla felicità. Anche se la loro non coincide con la nostra.