Storie di vita

“Mio figlio ha rischiato la vita per quel test”. Due mamme raccontano i pericoli dell’amniocentesi

 

Sono circa 10 mila i bambini ‘salvati’ dal G-Test (test genetico). Perché circa un milione di donne incinte nel mondo hanno preferito questo esame all’amniocentesi, che è invasiva e può provocare, nell’1% circa dei casi, un aborto spontaneo. Il G-Test è un test di screening per individuare le anomalie cromosomiche, e si fa con un prelievo di sangue. Non è diagnostico: valuta il rischio di anomalie. Ma, a differenza degli altri test di screening, ha un’affidabilità molto più alta.

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test1È nato in Italia dalla collaborazione della genomica BGI, la Bioscience Genomics, spin off dell’Università romana di Tor Vergata, con l’americana Complete Genomics. Ha la più alta percentuale di sensibilità per lo screening della Trisomia 21 (99,17%) e della Trisomia 13 (100%) e la minor percentuale di falsi positivi (0,05% e 0,04%). Ed è a rischio zero. Più è alta l’affidabilità di un test di screening, tanto minori saranno i casi in cui le donne incinte dovranno sottoporsi inutilmente a una procedura diagnostica invasiva, come l’amniocentesi.

“Se solo il test di screening non fosse risultato positivo – spiega Francesca – avrei evitato volentieri l’amniocentesi. Avevo fatto il test integrato: la misura della translucenza nucale e due prelievi del sangue. Dopo un paio di settimane dal secondo prelievo erano pronti i risultati. Se fossero stati negativi – ci avevano anticipato – non ci avrebbero più detto nulla. Il ginecologo avrebbe telefonato solo a quelle donne con alto rischio di anomalie. E a me quella telefonata è arrivata. Ricordo ancora oggi come mi sono sentita quando me l’hanno detto: c’era una possibilità su 67 che il mio bimbo avesse la sindrome di Down. Ho prenotato immediatamente l’amniocentesi, test diagnostico che mi avrebbe dato la certezza di una eventuale cromosomopatia”.

Francesca è andata in ospedale il mattino successivo, insieme al marito. “Mi sono sdraiata su quel lettino sapendo che c’era una possibilità su cento di perdere il mio bambino. E mi sono sentita crollare il mondo addosso quando il ginecologo mi ha fatto l’ecografia per valutare la posizione del feto. Ero già alla diciottesima settimana di gravidanza: ho visto quella piccola sagoma, così ben formata, che fluttuava come fosse un pesciolino, e ho sperato che non gli succedesse niente. Poi ho chiuso gli occhi e ho aspettato che mi prelevassero il liquido amniotico che serviva per l’esame. E sì, ho sentito un po’ di dolore. Non tanto quanto mi aspettassi, forse anche perché ero concentrata sul bambino, e non su di me”.

Francesca ha aspettato che l’infermiera le comunicasse che l’esame era concluso, prima di riaprire gli occhi. Ma suo marito ha assistito al prelievo, e solo dopo le ha raccontato quello che era successo. “Sul monitor vedeva quel lungo ago, così vicino al corpicino di nostro figlio, e non riusciva a smettere di guardare, come se volesse controllare che non gli succedesse niente”. Dopo il prelievo, un’ora, completamente ferma, sdraiata su un letto dell’ospedale, poi una nuova ecografia, per accertare che il piccolo continuasse a muoversi. A casa, quasi una settimana di riposo totale, perché la fase rischiosa non era ancora superata.

I risultati definitivi e completi sono arrivati quasi un mese dopo: nessuna anomalia cromosomica. Un caso di falso positivo. “L’ennesimo: anche a tante mie amiche è successo che il test di screening segnalasse un rischio molto alto, poi smentito dall’esame più invasivo”.

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Silvia, invece, ha fatto il G-Test: “Il risultato del tri test, che consiste in un prelievo di sangue e un’ecografia, aveva dato esito positivo. Il rischio era di uno a 176 per la sindrome di Down. A quel punto volevo sapere se mio figlio aveva davvero una anomalia cromosomica”. Ma l’amniocentesi le sembrava davvero troppo invasiva: “Non volevo correre il rischio di perderlo. Il mio compagno si è informato e abbiamo individuato un centro dove era possibile fare il G-Test. Pochi giorni dopo eravamo lì, a fare quel prelievo. È stato risolutivo. Con una attendibilità molto superiore agli altri test di screening, ha confermato che il nostro bimbo non avrebbe avuto anomalie cromosomiche. L’ho pagato circa 800 euro, perché non è offerto dal Servizio sanitario nazionale”.

Francesca, comunque, non avrebbe abortito “per niente al mondo, perché volevo già bene a quel piccolo che mi stava crescendo dentro: avevo già preparato la cameretta, i vestiti, il lettino, e lo volevo, qualsiasi fossero state le sue caratteristiche. Ma volevo essere preparata ad accoglierlo: se avesse avuto la sindrome di Down, avrei voluto leggere qualche libro, chiedere consiglio ai medici su come crescerlo al meglio delle mie possibilità. Lo volevo a tutti i costi: non l’avrei mai messo in pericolo per un esame”.

Fonte: Vanity Fair