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“Vogliamo solo verità e giustizia”. Paola e Adele, le due mamme del Jolly Nero, unite dal dolore e dal coraggio


Paola
che realizza il sogno del marito morto di adottare la figlia che avevano in affido e Adele che vive per avere giustizia per suo figlio morto. Hanno scritto una pagina di forza, di speranza e di rabbia, ieri, queste due donne.

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jolly2 L’hanno fatto nell’aula del tribunale di Genova dove si sta celebrando il processo per il disastro del Jolly Nero, il portacontainer che il 7 maggio 2013 si schiantò contro la banchina del porto. La torre di controllo crollò in acqua. A soccorsi conclusi, si contarono nove morti. Oggi sono imputati per quel disastro il comandante del Jolly, il pilota, il primo ufficiale, il terzo ufficiale, il direttore di macchina e il comandante d’armamento della società Ignazio Messina (proprietario).

jolly4In affido
Quella tragica sera Paola De Carli era a casa con il suo figlio biologico e con la bambina avuta in affidamento nel 2007, quando aveva 8 mesi. Mancava poco per ottenere l’adozione tanto desiderata da lei e da suo marito Marco, sottufficiale della Marina. Erano già, di fatto, una famiglia. Serviva solo l’atto finale, dare alla bambina il cognome di Marco (De Candussio). Ma Marco morì nel crollo della torre e per Paola tutto divenne buio. Come sarebbe andato a finire quel sogno dell’adozione? Martedì, in aula, è arrivata la risposta: è stata concessa, a lei e anche al marito che non c’è più, “l’unica buona notizia in una storia di sofferenza”, per dirla con le parole del suo avvocato, Andrea Divano.

jolly1“Voglio solo verità e giustizia”
Ma è stata Adele Chiello Tusa, martedì, a tenere tutti incollati alle parole, le sue parole di mamma. “Vede signor giudice…” ha raccontato la sua voce ferma “io avevo affidato mio figlio allo Stato e lo credevo in mani sicure. E invece l’ho visto tornare a casa in una bara di legno. A me non interessa che puniate questi imputati o che li mandiate in prigione buttando via la chiave. Ditemelo voi chi e per cosa è colpevole. Io voglio solo verità e giustizia, sono qui per questo”. Suo figlio si chiamava Giuseppe Tusa, aveva 30 anni ed era un marinaio della Guardia Costiera. Morì imprigionato nell’ascensore della torre finito in acqua. «Ho visto le sue mani» racconta lei. «Le dita erano consumate… chissà quanto tempo avrà provato ad aprire quella porta».

La missione
Avere verità e giustizia è diventata la missione della sua vita e Adele, 60 anni, in questi anni ha fatto di tutto per arrivarci. “Di tutto vuol dire mille cose” riassume la sua avvocatessa, Alessandra Guarini. Per esempio cercare, contattare e sentire di persona i testimoni di quella sera di cui aveva letto i nomi sui giornali; studiarsi tutti gli atti – tutti – fino a conoscerli praticamente a memoria; ingaggiare e pagare di tasca propria consulenti tecnici per capire se e quali punti deboli c’erano nella ricostruzione degli inquirenti; mettere sulla sua pagina Facebook ogni documento, ogni video o fotografia utile alle indagini; studiare a fondo la normativa sulle certificazioni di sicurezza delle navi e sulle autorizzazioni per la costruzione della torre di controllo. Insomma, un’inchiesta personale e, diciamo così, parallela a quella della Procura. Grazie alla quale ha potuto opporsi all’archiviazione dell’indagine sulla costruzione della torre. Il Gip le ha dato ragione e ha ordinato che venisse riaperta per altri otto mesi (è ancora in corso). E poi c’è il Rina, il registro navale italiano, che è un altro filone di inchiesta: in accelerazione dopo che Adele ha scovato chissà dove documenti consegnati in Procura. “E questo è soltanto l’inizio» dice lei. “Non sanno cos’è capace di fare una madre che vuole giustizia per il figlio…”.